Alzheimer: si può “leggere” nella retina

Non si tratta della prima ricerca che mette in relazione la patologia e la struttura oculare e indica la possibilità di predire la prima osservando la seconda. Ma in base a quanto affermano gli autori del Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles in una nota, «il nostro studio è il primo a fornire analisi approfondite dei profili proteici e degli effetti molecolari, cellulari e strutturali del morbo nella retina umana e di come corrispondono ai mutamenti nel cervello e nella funzione cognitiva»

La retina è una membrana molto sottile, una vera estroflessione del cervello all’interno dei bulbi oculari, in cui avviene il fenomeno della visione, e come tale offre la possibilità di monitorare il sistema nervoso centrale. Muovendo da questa considerazione, un team di ricercatori ha condotto uno studio producendo «l'analisi più ampia fino a oggi sui cambiamenti retinici e su come questi corrispondano alle modificazioni cerebrali e cognitive nei pazienti con malattia di Alzheimer - si legge in una nota dell’ospedale di Los Angeles - La loro analisi, pubblicata lo scorso febbraio sulla rivista peer-reviewed Acta Neuropathologica, è un passo importante verso la comprensione dei complessi effetti di tale morbo sulla retina, specialmente nelle prime fasi del deterioramento cognitivo».

Gli esperti ritengono che tale comprensione sia la chiave per lo sviluppo di trattamenti più efficaci che potrebbero prevenire la progressione della malattia. I risultati ottenuti «potrebbero alla fine portare allo sviluppo di tecniche di imaging che ci consentano di diagnosticare la patologia prima e in modo più accurato e di monitorare la sua progressione in modo non invasivo guardando attraverso l'occhio», sostiene nel comunicato Maya Koronyo-Hamaoui, docente di Neurochirurgia, Neurologia e Scienze biomediche al Cedars-Sinai e autrice senior del lavoro.

Nel corso dello studio i ricercatori, spiega la nota, hanno scoperto l'accumulo di proteine altamente tossiche nelle retine di pazienti con malattia di Alzheimer e lieve deterioramento cognitivo, che causano una grave degenerazione delle cellule. In che modo sono giunti a questo risultato? Hanno esaminato campioni di tessuto retinico e cerebrale raccolti in 14 anni da 86 donatori umani, che, come sottolineano, è il più grande gruppo di campioni retinici di pazienti con morbo di Alzheimer e lieve deterioramento cognitivo finora studiato, e li hanno confrontati con quelli di donatori con funzione cognitiva normale. Hanno dunque esplorato le caratteristiche fisiche delle retine di tali soggetti, misurando e mappando marcatori di infiammazione e perdita funzionale cellulare, e analizzato le proteine presenti nei tessuti retinici e cerebrali. Tra le caratteristiche che hanno scoperto nelle retine di individui con decadimento cognitivo lieve e malattia di Alzheimer ci sono: una sovrabbondanza di una proteina chiamata amiloide-beta 42, che nel cervello dei pazienti con il morbo si aggrega per formare placche che interrompono la funzione cerebrale; un accumulo di proteina beta-amiloide nelle cellule gangliari, che collegano l'input visivo dalla retina al nervo ottico; un numero superiore di astrociti e cellule immunitarie chiamate microglia che circondano strettamente le placche di beta amiloide; l'80% in meno di cellule microgliali deputate all'eliminazione di queste placche di proteine dalla retina e dal cervello e, infine, la presenza di molecole specifiche responsabili dell'infiammazione e della morte cellulare e tissutale.

«Questi cambiamenti nella retina erano correlati con i mutamenti in parti del cervello chiamate cortecce entorinale e temporale, un hub per la memoria, la navigazione e la percezione del tempo», afferma Koronyo. Le variazioni della retina erano anche correlate allo stadio patologico dell'Alzheimer e allo stato cognitivo dei pazienti. E sono state trovate pure in soggetti che apparivano cognitivamente normali o lievemente compromessi, indicandole come un possibile predittore precoce di un successivo declino.

«Poiché questi cambiamenti corrispondono ai cambiamenti nel cervello e possono essere rilevati nelle prime fasi della menomazione, possono portarci a una nuova diagnostica per l'Alzheimer e divenire un mezzo per valutare nuove forme di trattamento», conclude Keith L. Black, presidente del Dipartimento di Neurochirurgia presso il Cedars-Sinai e tra i coautori dello studio.

(red.)

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